Introduzione

I contenuti che cerchiamo di affrontare in questo articolo costituiscono il problema dei problemi che assilla ogni allenatore. Le domande cosa, come, con chi, perché degli esercizi alla fine è il sunto dell’arte di allenare. Per questa ragione questo articolo non può assolutamente essere esaustivo, cercherò solo di approfondire alcuni argomenti che solitamente vengono tralasciati o affrontati poco o superficialmente.

Molto spesso giovani e anche non giovani allenatori mi chiedono:

“Hai un buon esercizio per il bagher?”, oppure, un po’ più specifico: “hai qualche buon esercizio per gli spostamenti a muro?” . Oppure ancora mi fanno vedere un esercizio preso da internet e mi chiedono: “secondo te questo va bene?”.

Oppure ancora molti giovani tecnici vanno alla ricerca di “esercizi buoni” in rete o su libri di testo per preparare i loro allenamenti. Allo stesso modo in tutti corsi di aggiornamento e nei webinar la maggior parte degli allenatori cercano una scorciatoia, qualcosa che funzioni, subito. Non è poi raro sentire colleghi lamentarsi che nei testi e in tutto il materiale formativo reperibile si trova “troppa teoria” e poca pratica e quindi sono di scarso aiuto per l’attività quotidiana. Anche allenatori di una certa esperienza vogliono parlare di argomenti pratici e non teorici, vogliono confrontare la cosiddetta cassetta degli attrezzi. Invece, detto che una certa cassetta degli attrezzi può essere utile,

la vera grande differenza è proprio nella scelta degli attrezzi, è proprio nella teoria. Solo capendo in profondità il perché di un certo esercizio, il perché proporlo in un certo modo, il perché farlo fare a certi atleti e non ad altri si potrà iniziare a essere dei maestri artigiani invece di operai da catena di montaggio.

Così purtroppo la mia risposta alla domanda: “hai un buon esercizio per il bagher?” non può che essere: “No”. Perché l’esercizio che funziona, perfetto, ideale, non esiste. Allo stesso tempi ogni esercizio può essere reso più efficace, calzante ai nostri atleti utilizzando gli strumenti della didattica. Ma andiamo con ordine.

“Serve a qualcosa? Non serve a niente? Non so, io lo faccio” Con queste fantastiche parole Giuliano Lisi spiegava quello che faceva. In realtà la sua profonda umiltà derivava dalla consapevolezza di quanto fosse complicato spiegare in maniera teorica il perché qualcosa funzionasse e qualcosa no, ma il suo “io lo faccio” conteneva la sintesi di quello che ogni buon allenatore dovrebbe sempre tenere ben presente: “Lo faccio perché ho visto che in molti casi (non in tutti) funziona”. E cosa significa quel “funziona”? Significa che produce degli effetti positivi sulle capacità in gara dei nostri atleti. Significa che ha un transfer positivo.

Il transfer e la scelta dell’esercizio

Come prima cosa dovremmo essere d’accordo su cosa si intende per transfer. In generale il transfer nell’allenamento può essere definito come il miglioramento (o la perdita) di capacità di eseguire un compito (chiamato “criterion task”) come risultato dell’allenamento su un qualche altro compito (chiamato “transfer task”). Così il transfer ha una direzione: può essere positivo, quindi diventiamo migliori dopo l’allenamento, o negativo, cioè diventiamo peggiori. E ha anche un’ampiezza, cioè possiamo avere un miglioramento o peggioramento molto marcato oppure appena percettibile.

In letteratura esistono moltissime ricerche sul transfer ma molto spesso il transfer misurato è il cosiddetto near transfer nel quale criterion task e transfer task sono molto simili. Nella quotidiana pratica dell’allenamento per noi è invece importante sapere quale sia il transfer in compiti non molto simili, il cosiddetto far transfer. Quale è il transfer che esercitarsi a schiacciare un pallone contro il muro avrà sulla capacità in attacco in gara dei nostri atleti?

Detto che noi faremo riferimento all’approccio ecologico dinamico (contrapposto all’approccio cognitivo o information processing) si è trovato che:

il transfer non è dipendente dalla similarità tra il compito che viene praticato in allenamento e il test di transfer come correntemente si crede. Piuttosto riguarda la similarità della funzione coordinativa acquisita durante la pratica e le richieste del test di transfer. Se la funzione coordinativa può essere parametrizzata per essere utilizzata anche nel test di transfer allora osserveremo un transfer positivo (Newell and Pacheco 2018)

In altre parole il transfer può essere visto come una conseguenza della proprietà di generalizzazione dell’apprendimento. Benché noi impariamo soluzioni di movimento (funzioni coordinative) che sono estremamente specifiche per il compito dato, questo non significa necessariamente che queste soluzioni non possano essere utilizzate anche per altri compiti. Cioè le funzioni coordinative acquisite in un compito (transfer task) possono essere adattate per poter essere utilizzate da un altro compito (criterion task) attraverso un processo chiamato di riparametrizzazione.

Torniamo alla scelta degli esercizi. Detto che per migliorare qualsiasi gesto l’allenamento specifico è in generale l’attività che produce maggiori risultati, cioè se voglio migliorare la ricezione devo costruire un’esercitazione che assomigli più possibile a quello che accade in gara per ottenere il massimo transfer, ci sono delle situazioni in cui fare altri esercizi, appunto non simili alla situazione di gara, può essere più funzionale. Di solito quando appunto mi voglio concentrare su una particolare funzione coordinativa debole o assente. Quindi nello scegliere l’esercizio da fare, il mio transfer task, per avere appunto un buon transfer sul criterion task, dovrò essere in grado di rispondere preventivamente a 2 domande:

  1. Qual è la funzione coordinativa che non è sufficientemente sviluppata in quel particolare gesto e che quindi mi propongo di migliorare?
  2. Quanto complesso sarà l’adattamento della funzione coordinativa acquisita o migliorata attraverso il transfer task, al criterion task, cioè allo svolgimento del compito in gara?

Una volta che è ben chiara qual è la funzione coordinativa da migliorare, cosa che sembrerebbe scontata ma vi assicuro che spesso non lo è, la scelta se fare o no un certo esercizio dipende da una valutazione ben ponderata su quanto quella certa funzione coordinativa sia decisiva nel miglioramento del criterion task e quanto sia complesso il processo di riparametrizzazione da transfer task a criterion task. In altre parole è inutile sviluppare una certa funzione coordinativa con un certo esercizio se è poco importante per l’economia del gesto di gara e in più è difficilmente trasferibile. In prima istanza sarà più logico lavorare su funzioni coordinative di grande impatto e facilmente trasferibili (riparametrizzabili). Poi subentra il discorso della personalizzazione.

La scelta dell’esercizio e la diversità individuale

Oltre che scegliere una particolare struttura dell’esercizio per sviluppare qualche particolare funzione coordinativa che si vuole migliorare al fine di ottenere una certa performance dobbiamo considerare anche che la diversità individuale comporta che una stessa esercitazione produce risultati diversi per individui diversi. Ogni persona infatti ha una propria tendenza nello svolgere un certo compito. Questo dipende sia dalla particolare conformazione fisica del soggetto, altezza, peso, lughezza relativa degli arti (quelli che Newell chiama “vincoli organismici”) ma anche da delle tendenze coordinative chiamate da Kelso “intrinsic dynamics”, dove per dynamics si intendono pattern (schemi) coordinativi, per intrinsic si intende che appartengono naturalmente, che sono pre-esistenti a qualsiasi training su quello specifico gesto.

Siccome l’apprendimento motorio si può vedere come la transizione da uno stato stabile del sistema atleta da uno stato stabile a un altro, possiamo vederlo anche, alla luce degli intrinsic dynamics, come la competizione tra la tecnica che l’atleta cerca di eseguire e la naturale tendenza che ha nello svolgere quel determinato compito.

Così un certo esercizio che sviluppa e migliora un qualche pattern coordinativo può avere un grande effetto su un atleta che precedentemente non possedeva quel pattern (intrinsic dynamics) mentre può non averne alcuno su un atleta che invece già lo possedeva. Si comprende quindi perché le tanto decantate “progressioni didattiche” possono essere totalmente inefficaci.

Non è difficile pensare a progressioni composte da 5 esercizi e che nessuno di questi vada a “insegnare” qualcosa di utile, vada a toccare quella particolare funzione coordinativa che è deficitaria per quel certo atleta (o anche gruppo di atleti)

Viceversa un solo esercizio può produrre grandi risultati. Spesso si può notare che alcuni deficit coordinativi sono comuni in gruppi di atleti (visto anche che la proposta di allenamento a cui il gruppo è stato esposto è simile), ma questa cosa non accade nella mia esperienza molto di frequente, per cui è difficile parlare di esercizi validi “in generale”. Spesso i tecnici pensano di superare questo problema selezionando atleti “dello stesso livello”. Ma il problema permane. Anche con atleti dello stesso livello in generale i problemi coordinativi possono essere molti diversi per ciascuno dei componenti del gruppo.

A questo punto a qualcuno potrebbe venire il dubbio che l’unica soluzione sia quella di cercare di migliorare la tecnica attraverso lavori individuali personalizzati.

In realtà fortunatamente non è sempre così. In molte occasioni possiamo proporre esercizi uguali nella struttura esterna assegnando però ad ogni atleta compiti differenti oppure potrò chiedere di porre attenzione a parti diverse del movimento.

In questa seconda parte dell’articolo andremo inoltre a vedere come possiamo manipolare le esercitazioni rendendole leggermente diverse come livello di difficoltà per ognuno con lo scopo di favorire i processi di apprendimento dati differenti livelli di abilità tecnica individuale.

La gestione delle variabili dell’allenamento

Prendiamo come riferimento il modello proposto da Guadagnoli e Lee (2004) chiamato “Challenge Point Hypothesis”. In questo modello il problema delle variabili dell’apprendimento è legato a 2 elementi chiave.

  1. La distinzione tra difficoltà nominale e funzionale del compito (Sanli, Lee 2015): La difficoltà nominale del compito è determinata dalla richiesta percettiva-motoria ed è indipendente dalle capacità del soggetto e dalle condizioni in cui avviene la performance. Così ricevere un servizio che viaggia a 50 Km/h sarà nominalmente più facile che riceverne uno che viaggi a 100 Km/h. La difficoltà funzionale del compito si riferisce a quanto un compito è difficile in relazione sia alle capacità individuali del soggetto, sia alle particolari condizioni in cui la performance ha luogo. Così ricevere un servizio che viaggia a 50 km/h sarà più difficile per un principiante o un under 14 che per un giocatore di serie A, o sarà più difficile in un campo da beach rispetto a un campo indoor a causa delle difficoltà introdotte dalle condizioni esterne quali sabbia e vento, sebbene la difficoltà nominale sia sempre la stessa. Così ci si aspetta buone performance per i principianti solo con basso livello nominale del compito, mentre ci si aspetta performance qualitativamente alte per gli esperti fino a che non ci si porti ai massimi livelli.
  2. Il ruolo dell’informazione. In questo paradigma l’apprendimento motorio è considerato un processo di problem solving nel quale gli atleti cercano differenti soluzioni di movimento per raggiungere l’obiettivo. Per arrivare a questo scopo la base è la quantità di informazione disponibile durante e dopo ogni tentativo. L’informazione viene da 2 fonti: il piano d’azione e il feedback. Il piano d’azione ha anche una funzione predittiva dell’informazione sensoria che sarà ricevuta come risultato del movimento. In questo quadro l’informazione è essenzialmente la differenza tra la predizione sensoriale e il risultato reale determinato dal feedback. L’informazione viene utilizzata per ridurre l’incertezza (dalla Teoria dell’informazione). Per esempio un principiante che effettua un bagher nella pallavolo ha una grande incertezza rispetto alla forza necessaria per mandare la palla precisa al palleggiatore. Cioè ci sarà una grande differenza tra la predizione sensoriale del risultato e il risultato reale. Questa informazione guiderà per delle più efficaci soluzioni per le esecuzioni successive. Per l’esperto invece sarà molto probabile che il risultato atteso sia uguale a quello reale, quindi l’informazione sarà zero. Allora imparare è in relazione con l’ammontare di informazione disponibile per l’atleta che a sua volta dipende dalla difficoltà funzionale del compito.

Se l’informazione è zero, cioè se l’atleta ha sempre successo nel compito, l’apprendimento è zero. Per cui eseguire bene un compito motorio non è affatto un segnale di apprendimento. Se l’informazione è troppo poca o troppa l’apprendimento sarà comunque basso. In altre parole se un compito è solo leggermente difficile l’apprendimento sarà lento, viceversa se il compito è troppo difficile l’informazione sarà tantissima ma sarà di difficile interpretazione.

Immaginiamo un principiante che provi a difendere un attacco di un giocatore di serie A: le braccia colpiscono il pallone con un angolo sbagliato. Ma il feedback che il principiante riesce a ricavare dall’esperienza non è sufficientemente dirimente: l’angolo è sbagliato perché il movimento delle braccia è troppo lento o troppo in ritardo? La posizione del corpo è troppo indietro o le braccia sono troppo staccate dal corpo? Quindi:

perché l’apprendimento avvenga ci deve essere l’ammontare dell’informazione ottimale che varia come una funzione della difficoltà nominale del compito e del livello di abilità dell’atleta (quindi la difficoltà funzionale).

Variabilità dello stimolo allenante: blocked o random?

Ora per modulare l’apprendimento abbiamo delle manopole su cui agire. Delle variabili che ci possono permettere di creare le condizioni ideali per ogni atleta qualsiasi sia l’esercizio.

Iniziamo con la variabilità del compito. Aumentare la variabilità di un compito aumenta la sua difficoltà. Diminuire la variabilità diminuisce la difficoltà del compito. Quindi dato un compito con diverso livello di difficoltà, passare alla pratica random porterà a dei vantaggi per compiti con basso livello di difficoltà, ma potrebbe portare a svantaggi per compiti con alto livello di difficoltà (come abbiamo già visto nell’articolo sul CIE , perché l’informazione diventa non interpretabile). Ecco ad esempio il motivo per cui fare allenamenti con esercitazioni globali senza nessuna accortezza con principianti non porta a nessun miglioramento tecnico.

Analogamente dati atleti con differenti livelli di abilità, bassi livelli di variabilità sono consigliati per principianti (blocked practice) mentre alti livelli di variabilità sono meglio per atleti con alto livello di abilità. Potrò quindi anche all’interno dello stesso esercizio variare le richieste in termini di variabilità:

  • VARIABILITY WITHIN SKILL: All’atleta più abile potrò chiedere di svolgere il compito in più modi diversi (uno semplice che mi viene in mente attacco sia la diagonale che la parallela), mentre a quello meno abile richiederò di svolgerlo in un solo modo (solo diagonale)
  • VARIABILITY BETWEEN SKILL: Nelle rotazioni posso mantenere fisso l’atleta meno abile (che quindi farà blocked) mentre posso far ruotare più spesso l’atleta più abile (che quindi farà random)

Le possibilità di gestione del feedback

L’accesso al feedback permette il confronto delle informazioni. Non avere feedback a ogni ripetizione aumenta la difficoltà funzionale del compito. Per cui dare feedback saltuariamente o ritardati aumenta la difficoltà funzionale. Che ancora deve essere valutata in base a difficoltà nominale del compito e livello di abilità dell’atleta. Compiti con alta difficoltà devono avere frequente e immediata presentazione del feedback, compiti di basso livello funzionale avranno il massimo apprendimento con meno frequente e ritardata presentazione del feedback. In pratica quindi, nello stesso esercizio:

  • posso dare feedback più frequente e più tempestivo ad atleti meno abili (ad esempio dare feedback sulla performance Kp a ogni ripetizione)
  • posso dare feedback più rari e meno tempestivi ad atleti più abili (cioè posso dare Kp solo ogni tanto o dietro loro richiesta)

Molto interessante è la gestione della variabilità rispetto al feedback. Si può fornire feedback su un solo aspetto a ogni tentativo (una sorta di blocked feedback) oppure dare feedback su diversi aspetti per i vari tentativi (random feedback). E’ stato dimostrato in linea con il quadro della Challenge Point Hypothesis che

per compiti con bassi livelli di difficoltà nominale dare feedback random facilita l’apprendimento rispetto ai feedback blocked. Viceversa, per compiti con alto livello di difficoltà nominale l’apprendimento è facilitato dalla presentazione del feedback in modo blocked (Wulf, Hörger, e Shea 1999)

Non a caso nella gestione del globale molti considerano molto più efficace occuparsi di poche cose (al limite una) piuttosto che dedicarsi a tutto lo scibile pallavolistico. Come strumento per rendere differente lo stimolo allenante per i vari atleti posso, in qualsiasi esercitazione:

  • dare feedback (correggere) un solo singolo aspetto alla volta, con atleti meno abili
  • dare feedback su molti aspetti ad atleti più performanti in quella particolare abilità

La gestione della zona di comfort

Altri importanti elementi da considerare sono i livelli di motivazione e di stress dell’atleta di fronte al compito.

Il quadro dipinto dalla Challenge Point Hypothesis derivando essenzialmente dall’approccio cognitivo fornisce risposte da considerare valide con buona approssimazione per gli aspetti qualitativi vista la difficoltà di misurare quantitativamente la difficoltà funzionale del compito (sia nell’allenamento, sia nella fase sperimentale per corroborare l’esattezza della teoria). È un modello che funziona fino a che manteniamo il parallelo cervello=computer. Sembra invece non dare risposte adeguate quando andiamo a considerare la sfera emozionale degli atleti. Infatti allenarsi sempre al livello ottimale così come definito dall’ipotesi può portare a livelli di stress che possono essere troppo elevati e possono abbassare il livello di performance e incidere negativamente sui livelli di motivazione. Sembra infatti che per l’atleta sia importante dover rispondere facilmente in alcune occasioni, non dover sempre stare al proprio limite, per ricaricare le pile e consolidare le proprie certezze interiori. In altre parole non ci si può allenare sempre al limite (o fuori) della propria zona di comfort. Nel modulare la proposta di esercitazione quindi dovrò valutare la richiesta in termini di stress per ogni singolo atleta. Valutando quindi il livello di stress ottimale (non troppo e non troppo poco) potrò:

  • togliere completamente alcuni esercizi funzionalmente difficili una volta raggiunto un certo livello di stress (per esempio togliere dalla ricezione in un certo momento, o togliere dall’attacco in generale o dal dover eseguire un certo tipo di palla che crea ansia e preoccupazione)
  • agire sulle manopole di variabilità e feedback per attenuare o aumentare lo stress della particolare esercitazione (ad esempio aumentare i feedback su un solo aspetto per l’atleta in difficoltà e lasciar perdere il resto)

Conclusioni

Abbiamo quindi messo in evidenza 2 elementi apparentemente contrastanti dell’arte di proporre esercitazioni. Da una parte ci siamo allontanati dal mito dell’esercizio perfetto, risolutore, verso al contrario esercizi estremamente specifici, mirati per quel particolare compito, in quel determinato contesto per quel particolare atleta. Dall’altra abbiamo visto come possiamo utilizzare gli strumenti della didattica per allenare atleti di diversi livelli, su compiti diversi, utilizzando gli stessi esercizi. Non abbiamo trovato l’esercizio perfetto ma abbiano analizzato alcuni elementi che possono rendere i nostro esercizi sempre più efficaci.

Bibliografia

Pacheco, M. M., & Newell, K. M. (2018). Transfer of a learned coordination function: Specific, individual and generalizable. Human movement science, 59, 66–80. https://doi.org/10.1016/j.humov.2018.03.019

Guadagnoli, Mark A., e Timothy D. Lee. 2004. «Challenge Point: A Framework for Conceptualizing the Effects of Various Practice Conditions in Motor Learning». Journal of Motor Behavior 36(2):212–24. doi: 10.3200/JMBR.36.2.212-224.

Sanli, E. A., & Lee, T. D. (2015). Nominal and functional task difficulty in skill acquisition: Effects on performance in two tests of transfer. Human movement science41, 218–229. https://doi.org/10.1016/j.humov.2015.03.006

Wulf, Gabriele, Monika Hörger, e Charles H. Shea. 1999. «Benefits of Blocked Over Serial Feedback on Complex Motor Skill Learning». Journal of Motor Behavior 31(1):95–103. doi: 10.1080/00222899909601895.